Polpo10

Anno 2123

(Chiara, Patricia, Annalisa, Michele, Emilio)

Abbiamo completato l’invio degli ultimi dati meteorologici al satellite; per oggi il nostro lavoro è concluso. È difficile per noi lavorare con tutta questa luce, non ci è permesso mai di uscire senza protezioni. Le rive dell’enorme lago rosa, pur essendo a qualche centinaio di metri, rimangono ancora difficili da raggiungere; uscire significa confrontarsi con il calore di tre stelle e con la flora e la fauna locali, che non conosciamo appieno. Aspetteremo il calare della notte, per ulteriori ricognizioni, tra qualche mese. Dobbiamo ancora capire quale meccanismo naturale si è creato in questo luogo che permette comunque alla vita, sotto le sue diverse forme, di prosperare e continuare. Nonostante il viaggio affrontato, e la speranza di questo luogo come una nuova Terra Promessa, non avevamo considerato tutte le variabili: eravamo ansiosi di partire e lasciare la desolazione che si era venuta a creare dopo la guerra, pronti ad una avventura, che forse, ci avrebbe portato notorietà, ricchezza, ma soprattutto conoscenza, e una nuova vita, se mai fossimo sopravvissuti.

Pensavamo saremmo bastati a noi stessi, ed invece, eccoci qua, noi, soli, ad affrontare un pianeta sconosciuto, in apparenza simile a quello che abbiamo lasciato ma ben più pericoloso e misterioso. Noi non siamo felici qui.

Vogliamo tornare a casa anche se è distrutta dalla guerra. Vorremo ricostruirla. Uno degli aspetti più scomodi di questa faccenda è che, a noi, il ritmo del sonno è rimasto uguale che sull’ex pianeta, per cui la luce intensa ci impedisce di dormire malgrado i vetri che possiamo scurare per frenare l’effetto serra che produrrebbero i tre astri che ci circondano, inchiodati nel cielo; altrimenti ci saremmo già lessati dentro perché il sistema di raffreddamento a volte non è sufficiente. Dunque, decidiamo di coricarci nelle brandine con gli occhi coperti da un paraocchi. Dopo qualche ora di sonno, non saprei dire quante perché il tempo qui scorre a ritmo diverso, mi alzo e sento il desiderio di prendere una boccata d’aria e muovere le gambe in libertà. Siamo da troppi giorni tutti insieme nella stessa base e comincio a sentire un po’ di claustrofobia e a non sopportare i compagni. In silenzio, mi metto le protezioni obbligatorie per uscire, apro la porta e la socchiudo delicatamente per non svegliare nessuno. Non voglio dare spiegazioni, tra l’altro non mi allontanerò molto, è solo una passeggiata perché oltre alle condizioni di luminosità intensa, le forme di vita presenti non mi sono sembrate minacciose da quando siamo atterrati qualche settimana fa. Mi allontano dalla base di qualche metro e… scorgo uno strano essere, una specie di polpo gigante, ma con solo cinque tentacoli, si cinque, proprio come noi avventurieri dello spazio, partiti da Ispra, provincia di Varese, Italia, Europa, Pianeta Terra, alla volta di un pianeta apparentemente abitabile, ma pieno di insidie, mischiate, forse, a promesse e speranze.

Il polpo si avvicina lentamente e in modo goffo. Forse saranno le ore di sonno agitato e poco profondo, o la stanchezza di dover condividere un luogo limitato con questi altri quattro esseri umani che ormai non sopporto più, avendo dovuto conoscere la loro quotidianità così differente dalla mia. Non so se è un’allucinazione, ma mi sembra che questa creatura abbia una faccia conosciuta: ma sì, è proprio la faccia o meglio il profilo di Alfred Hitchcock, quel simpatico grassone che adoravo e di cui mi somministravo quotidianamente i corti quando ero ragazzina. Il casco sinaptico che indosso percepisce il mio ricordo e dall’auricolare mi trasmette la sigla taratatartata tarataratatata tarararaaa tarararaaaa tarararaaaa.

Alfred Polpchcock è enorme e, per quanto goffamente, si avvicina sempre di più. Dio mio e ora cosa faccio? penso. Cerco di tornare impedita dalla tuta alla base ACE-JRC, ma due latini, che credo provino nei miei confronti la stessa idiosincrasia che provo io nei loro confronti, stanno serrando il portellone. Il casco intanto vibra: è una videochiamata di mia madre, appare lei e dietro tutta la famiglia. Sono in spiaggia a Maratea. In mano ha un panino con la frittata di cipolle, sento il profumo che pervade il casco sinaptico.

—Mamma, cazzo, ma ti sembra il momento? Sto cercando di salvarmi la pelle e tu mi ributti nei colori e nella nostalgia di casa? Aprite! Aprite questo fottuto portellone! Michele, Chiara! Almeno voi…

Mi trovavo in sala macchine a verificare i sistemi vitali della base e a fare i controlli periodici delle attrezzature. Era il mio compito come specialista di carico della missione, e lo facevo volentieri perché era l’occasione di cambiare stanza e isolarmi almeno per qualche minuto dal resto dei miei compagni di avventura. Alla scuola di addestramento ci avevano messo in guardia che la difficoltà maggiore nei viaggi spaziali fosse la convivenza. Spazi piccoli, sempre le stesse persone, e anche se si va d’accordo abbiamo bisogno dei nostri spazi, anche nello spazio. Assorto in questi pensieri provo un casco sinaptico per i test e, non appena indossato, sento dagli auricolari la melodia di Alfred Hitchcock presenta e la voce della mia compagna di viaggio che chiede aiuto! Salgo nella plancia di comando e vedo i due compagni latini che hanno bloccato l’accesso principale. Non mi perdo a dilungarmi nel chiedere spiegazioni, già lo sospetto: Annalisa, come me, mi chiamo Michele per chi non mi conosce, non abbiamo ancora consegnato l’audiolibro da inviare in bassa frequenza verso la Terra per il Festival Europeo della Cultura. Il tempo scorre veloce e le riserve d’aria della tuta stanno per terminare.

Mi precipito in sala macchina lungo la scala marinara con una velocità che ricorda quella del poliziotto Huber quando corre a soccorrere il signor Rezzonico. Nella sala macchine c’è un SAS di emergenza per il rientro delle squadre in esplorazione. Azioni l’apertura della porta che esterna appena in tempo perché Annalisa possa rientrare. Avvio il sistema di pressurizzazione in modo da poter aprire la seconda porta verso l’interno. Annalisa rientra quasi svenuta, con le bombole di ossigeno in riserva al 2%. Mi abbraccia sfinita, la faccio accomodare a terra, e mi accorgo che avvinghiato attorno alla sua gamba c’è un lungo tentacolo reciso ma che ancor si muove…

–Chi ha chiuso il portellone? —chiese Chiara

–L’ho chiuso io, perché ho visto che Annalisa stava per introdurre nella navicella spaziale una forma di vita sconosciuta che metteva a rischio la vita dell’equipaggio. Mi dispiace molto per lei, ma le regole sono chiare. Non possiamo decidere di fare una passeggiata solo perché ci sentiamo annoiati. Qui stiamo compiendo una missione da cui dipende la specie umana che sappiamo perfettamente è sull’orlo dell’estinzione. Ricordiamoci che questa non è una prova, è una vera e propria missione. Siamo ricercatori ACE-JRC, non ci dedichiamo a pettinare le bambole. I campioni di acqua viscosa del lago rosa che stiamo trasportando sono molto importanti per conoscere meglio la situazione che esiste su questo pianeta considerato la terra promessa. Un passo chiave nel compimento della missione Umanis. Questo posto sarà la nostra casa, ma dobbiamo stare molto attenti e non lasciarci dominare da questi esseri alieni. Adesso siamo in guai seri, perché quel pezzo di tentacolo reciso che si muove ancora è un blastema, cioè un ammasso di cellule indifferenziate da cui si può generare e moltiplicare un Polpchcock completo. Cercherà in noi le proteine umane catalasi e le fetuine di cui ha bisogno per codificare i geni che lo svilupperanno in un essere completo capace di riprodursi. Tra poche ore avremo dozzine di Alfred Polpchcock. Dovremmo avvertire l’Agenzia Co-spaziale Europea (ACE) —disse Michele esasperato, quasi senza fiato.

Includeremo questo brutto episodio nell’audiolibro a bassa frequenza che invieremo presto. Purtroppo, ci faranno rimanere in orbita per almeno altri sei mesi prima di permetterci di riaccendere il motore e tornare a casa. Addio panino con la frittata di cipolle di mia madre…