Chiamami

Chiamami, chiamami

Magari il mondo tra mezz’ora scompare

Parlami, parlami

Di quando il tempo lo sapevi ammazzare davvero

Cercami, cercami

Mi riconosci in mezzo a tutta la gente distratta

Pensami, pensami

Mentre la notte viene uccisa dall’alba e tu non ci sei

Ci siamo persi ormai (ma) non cambia niente

So che ritornerai (già) come fai sempre

Ho superato le onde di un mare che a volte mi butta giù

Per ritornare nel punto dove incontrarti e non c’eri più

Ho conosciuto le bombe, lo iodio, l’inverno, la schiavitù

Ma c’eri sempre tu che mi tenevi su

Trovami, trovami

In una vecchia foto che ti commuove

Cadimi, cadimi

Addosso come il muro, l’ottantanove davvero

Piovono, piovono

Messaggi di propaganda sta attento a non leggerli

Scriverò, scriverò

Una canzone per gridare la parola “proteggimi”

Ho superato le onde di un mare che a volte mi butta giù

Per ritornare nel punto dove incontrarti e non c’eri più

Ho conosciuto le bombe, lo iodio, l’inverno, la schiavitù

Ma c’eri sempre tu che mi tenevi su

(Già) come fai sempre

Mentre nascondo la rabbia lo specchio mi guarda senza pietà

Mi servirebbe soltanto un abbraccio, uno slancio d’umanità

Ho conosciuto le bombe, lo iodio, l’inverno, la dignità

Ma sono ancora qua, sì, qua per dirti

Chiamami, chiamami

 

Fonte: LyricFind

Compositori: Carlo Frigerio / Fabio Delè / Fausto Zanardelli / Francesca Mesiano

Testo di Chiamami © Warner Chappell Music, Inc

Racconto di Michele Prata, liberamente ispirato al testo della canzone Chiamami dei Coma Cose

Pripjat (URSS), venerdì 25 aprile 1986

– Sveglia amore, sono quasi le sei e trenta, è ora di alzarsi  come ogni mattina Yanina si accosta a Kirill che è ancora a letto per svegliarlo. Lei si è già alzata da più di mezz’ora. Gli ha scaldato l’acqua per lavarsi e la colazione è quasi pronta.

Yanina è una ragazza di circa venticinque anni, corpo snello e asciutto, capelli biondi e occhi cerulei, piccolina di statura, tanto che quando bacia Kirill deve mettersi in punta di piedi, particolare che aggiunge ancor più romanticismo al gesto di affetto.

– Yanina, no ti prego, ancora cinque minuti… –
– Muoviti pelandrone!! Che io sono in piedi già da mezz’ora per prepararti tutto! – gli risponde con tono di rimprovero, accompagnato da un sorriso affettuoso.

Kirill è un ragazzo alto e robusto. Mentre era militare di leva, nel 1982 è stato inviato in Afghanistan nel conflitto fra Unione Sovietica e i mujaheddin. A Yanina non parla mai di quel periodo. Già si conoscevano e Yanina gli promise che l’avrebbe aspettato al suo ritorno il giorno dell’addio le sussurrò all’orecchio: “So che ritornerai”. Tre anni lontano da casa, anni in cui ha conosciuto le bombe, l’inverno e la schiavitù, ma mai dimenticò quelle parole, furono per lui la forza e il motivo per non lasciarsi andare. Tornò con tre medaglie sulla divisa e il grado di tenente, non le disse mai il motivo per cui gliele diedero, e Yanina non gli chiese mai quel motivo, gli leggeva negli occhi che avrebbe preferito ritornare soldato semplice senza onori. Ma quelle tre medaglie significavano una ricollocazione da civile in un posto pubblico con una qualifica più alta e per questo si erano trasferiti lì. La possibilità di sposare Yanina, e per lei il posto di maestra nell’asilo della città.

– Il tuo caffè è sempre magico, mi dona un risveglio istantaneo unito al bacio di prima, ma qual è il tuo ingrediente segreto? – le disse, mentre leggeva la prima pagina della Pravda. Yanina era distratta, perché quel mattino, insieme alla Pravda era stato consegnato anche il Krokodil, il supplemento periodico satirico. Yanina adorava leggere quelle pagine più leggere del quotidiano e come sempre si soffermava sull’ultima pagina, quella dei messaggi personali. 

– Ma cosa ci trovi di così interessante? –
– È bellissimo, persone che vogliono vendere qualcosa, persone che si cercano, sono moderni messaggi in bottiglia, dietro queste trenta parole ci sono mondi, drammi, vicende personali affidate all’ultima pagina del giornale… –
– La stessa pagina che domattina avvolgerà le uova del mercato – concluse lui sarcastico.
– È ora che vada, altrimenti farò davvero tardi. Mi sono scordato di dirti di non aspettarmi questa sera. Il compagno supervisore ha detto che stanotte si faranno dei test sulle turbine mai eseguiti e rimandati dalla squadra in turno nella settimana, così tocca a noi del turno del fine settimana e non possiamo fare pause – aggiunse Kirill quando aveva ormai raggiunto la porta del loro appartamento – Tesoro, rientrerò lunedì mattina, almeno riusciremo a darci un bacio prima che tu inizi l’asilo. – 
Yanina sentì un brivido sulla schiena… “I baci più belli sono quelli che hanno il sapore del primo e la paura dell’ultimo”.

 

 

– Buongiorno Sergej, allora, sono già iniziati i test? –
– No, Kirill, la squadra precedente non ha finito i test ai quadri elettrici, ora tocca a noi, la prova è prevista per mezzanotte, staccheranno i collegamenti della centrale alla rete di distribuzione e non si avvieranno i diesel di emergenza, la corrente fornita dalle turbine in fuga darà l’energia necessaria agli impianti di sicurezza. –
– Sarà… andiamo a sistemare i quadri – disse Kirill dirigendosi verso la sala quadri elettrici, con il desiderio che se prima avesse finito, prima sarebbe potuto tornare da Yanina.

 

Chernobyl (URSS), sabato 26 aprile 1986 ore 01:23:40

Un forte boato sorprese tutti i tecnici della centrale. Kirill e Sergej si trovano nella sala quadri elettrici quando l’illuminazione va via e una serie di segnali di allarme iniziano a illuminare i quadri e decine di cicalini di allarme iniziano a suonare. Una melodia dissonante di allarme mancanza rete elettrica, allarme alta temperatura, allarme incendio e, la sirena che fa più paura, che gela il sangue nelle vene perché ha lo stesso suono dell’allarme attacco aereo che Kirill ben conosceva, ma che qui alla centrale di Chernobyl aveva tutt’altro significato: allarme nucleare.

 – Attenzione, attenzione! Restate tutti nei vostri posti, si tratta di un falso allarme, mantenete la calma e restate nelle vostre postazioni – ripeteva la voce del compagno supervisore dagli altoparlanti.

– Sergej, ci stanno prendendo in giro, altro che non è successo niente, vieni con me, andiamo negli spogliatoi e filiamocela il prima possibile!! –
Sergej non se lo fece ripetere due volte. Quello che era per molti un labirinto per loro era la quotidianità. Come topolini da laboratorio percorsero stretti corridoi che li condusse al corridoio principale, tutto a vetrate, che portava agli spogliatoi. Qui trovarono una quarantina di altri colleghi che guardavano le fiamme e la colonna di fumo e pulviscolo che si era alzato dal reattore n.4 e che stava salendo in cielo per poi ricadere su di loro e dove l’avrebbe portata il vento.

– Yanina, Yanina, Yanina – continuava a ripersi Kirill. Doveva andare da lei!
Ma non sarebbe stato quel giorno, e nemmeno il successivo, e forse nemmeno quello dopo.
I militari che presidiavano la centrale avevano ordini ben precisi: NESSUNO doveva lasciare il sito. Seguirono giorni che Kirill avrebbe poi voluto dimenticare, come stava cercando di dimenticare quelli in Afghanistan. Venne loro dato lo iodio, tute di gomma, maschere con filtro, pesanti pannelli di piombo a proteggere il torace e… e via a cercare di spegnere l’incendio del nocciolo, o almeno di quel che restava. Il tempo era loro scandito per non superare i livelli di dose deterministici. 

La notte erano tutti radunati nello spogliatoio, per chi ancora stava in piedi, o in infermeria, chi già accusava gli effetti delle radiazioni. Quella notte, quella del 30 aprile, Kirill si sentiva ancora bene, determinato, era la notte giusta. Aveva notato che le guardie presidiavano gli ingressi principali, ma lui, come manutentore elettrico, conosceva anche i cunicoli che portavano alle cabine elettriche esterne dal perimetro. Non disse nulla a Sergej, non voleva intralci, e nemmeno farlo complice se li avessero presi. Verso le tre di notte si diresse in fondo allo spogliatoio, aprì la porta che portava al cavedio dei conduttori elettrici e sparì oltre quella porta. Aveva con sé solo una torcia elettrica, una vecchia foto di Yanina e il desiderio di raggiungerla.

 

 

Pripjat (URSS), sabato 26 aprile 1986 ore 01:23:40

Yanina stava dormendo, non era un sonno tranquillo, era agitata, ripensava a quel bacio, al sapore di quel bacio. Era ansiosa, sentiva qualcosa. Il boato la raggiunse che lei ancora era sveglia. Corse al balcone, guardò verso la centrale e vide i bagliori in cielo e una colonna rossa di fuoco verso il cielo.

– Kirill, Kirill, Kirill – continuava a ripersi. Doveva andare da lui!

A Pripjat cominciarono a suonare le sirene di allarme nucleare. Gli altoparlanti, con voce metallica che non lasciava trasparire alcuna emozione, dicevano di restare tranquilli all’interno delle proprie abitazioni, dicevano che era tutto sotto controllo, di abbassare le tapparelle e restare chiusi in casa. La mattina seguente le strade erano coperte da uno spesso strato nero di polvere e fuliggine. Giravano i mezzi militari e dall’altoparlante continuavano a ripetere di restare in casa.

 

 

Kirill percorse il lungo cunicolo, incontrando colonie di ratti, diversi ragni e qualche scorpione. Ma lui sapeva che là in fondo c’era la cabina elettrica numero ventitre, ducento metri al di là del perimetro, direzione Pripjat. Salì la scala marinara con attenzione a non scivolare, uscì da una botola all’interno della cabina elettrica. Guardò fuori dalle feritoie di ventilazione. Vide il riflesso di una luce blu lampeggiante, passò un mezzo militare, era probabilmente la ronda. Quando non udì più nulla uscì.

Per terra c’era uno strato spesso di polvere nera. Si coprì la bocca con un fazzoletto. Guardò la strada verso casa: la più breve, ma anche la più pattugliata. Decise allora di entrare nel bosco, nel bosco poteva riposare e alle prime luci dell’alba partire per tornare a casa. 

Si era addormentato sotto un albero, era primavera, ma la notte era ancora fredda e gelida. Era il momento di mettersi in viaggio, mentre la notte viene uccisa dall’alba. La strada asfaltata era di una decina di chilometri, nel bosco sarebbe stata più lunga. Infatti sembrava non finire mai… ma la città era vicina. Arrivò alle sette del mattino, poté vedere la piazza principale, da cui partiva una colonna di autobus scortata dalla polizia. Stavano evacuando la città. Corse come un disperato, ma quando arrivò l’ultimo autobus stava partendo. Cercò di corrergli dietro sbracciandosi, ma nulla da fare. Era l’ultimo. Yanina: era ritornato nel punto dove incontrarti e non c’eri più.

 

Si voltò a vedere la città che doveva regalargli un futuro felice, era deserta. Solo una pattuglia militare, che gli veniva incontro con i fucili spianati intimandogli di alzare le mani. Aveva il viso nero di fuliggine, le lacrime agli occhi e indossava la giacca di manutentore elettrico della centrale.

 

 

Nel letto di ospedale pensava, pensava a Yanina, la stessa domanda che si poneva da 2 anni – dove l’avranno portata? Come posso rintracciarla, salutarla, parlarle almeno un’ultima volta. –
Non voleva pensare alla fine che lo stava attendendo, cercò di pensare ai momenti felici che aveva vissuto con lei, di quando il tempo lo sapeva ammazzare, si voleva aggrappare a quelli! L’ultimo sorriso che vide sul volto di Yanina fu quello della battuta sulla rubrica dei messaggi del Krokodil… un momento, il Krokodil!! Chiamò l’infermiera Yelena. Yelena era un donnone ucraino dal cuore d’oro. In una notte di dolore e pianto Kirill le confidò la sua storia, sicuramente l’avrebbe aiutato. Si fece dare un foglietto di carta e un lapis. Poi chiese a Yelena il favore più grande che desiderava in quel momento, lei sorrise e uscì dalla stanza. 

 

 

Leningrado (URSS), 10 novembre 1989

Yanina si è appena fermata di fronte al bar che fa angolo con la via che porta all’asilo. C’è gran fermento all’interno. Diversi avventori tengono in mano la Pravda che riporta nel titolo la notizia della caduta del Muro di Berlino. Posato sul tavolino all’ingresso alcuni numeri del Krokodil, supplemento al quotidiano ma che quel giorno a nessuno interessa. Yanina lo prende con un sorriso malinconico, lo sfoglia cercando di deglutire quel nodo che le stringe la gola e arriva alla pagina dei messaggi personali. Li scorre con la mente a quel mattino di aprile dell’ottantasei, l’ultima colazione insieme a lui, quando lo sguardo si ferma incredulo su un messaggio che conteneva il numero di telefono dell’infermeria dell’ospedale di Kiev e il cui testo era:
Chiamami – il tuo Kirill”. 

Testo della canzone:

Angelita

Ti saresti chiamata Angelita

Angelita, Angelita

Volevamo chiamarti Angelita

Angelita

 

Sbarcammo ad Anzio una notte

Ooh, ooh

C’era soltanto la luna

Ed un pianto di bimba

 

In fondo al suo sguardo di mare

C’erano ancora le favole

E quattro conchiglie ripiene di sabbia

Stringeva una piccola mano

 

Angelita

Ti seresti chiamata Angelita

Angelita

 

Entrammo in Anzio e fu l’alba

Ooh, ooh

Con il fucile sul braccio

E la bimba con noi

 

Aveva i cappelli di grano

E una voce di passero

E quattro conchiglie ripiene di sabbia

Stringeva una piccola mano

 

Angelita

Volevamo chiamarti Angelita

Angelita

 

Che alba grigia su Anzio

Ooh, ooh

Scese improvviso tra noi

Un silenzio di bimba

 

Da questo sguardo di mare

Eran fuggite le favole

Ma quattro conchiglie ripiene di sabbia

Restavano nella sua mano

 

Angelita

Ti saresti chiamata Angelita

Angelita, Angelita

Volevamo chiamarti Angelita

Angelita, Angelita

 

Angelita, Angelita

Angelita

Racconto di Anna Giulia Cattaneo, liberamente ispirato al testo della canzone Angelita di Anzio

Era una bella sera d’inizio maggio, ero in cortile con il mio amico, il dobermann dal pelo nero focato che mi seguiva dovunque. Giocare con lui era sempre una bella avventura, mi faceva dimenticare tutto, anche le piccole ansie della mia età. Avevo dieci anni, stavo per finire la quarta elementare e quel giorno ero quasi certa di non aver fatto bene il compito di aritmetica. Ero assente quando la maestra aveva spiegato il calcolo del peso specifico, e non avevo affatto le idee chiare: forse avevo addirittura meritato un’insufficienza! Finché ero con il cane non dovevo pensarci. Faceva già caldo, o forse il gioco non mi permetteva di sentire il fresco della sera, certo è che il sole al tramonto allungava le ombre dei pini. La mamma si era affacciata e mi richiamava in casa. “Un minuto, mamma, ancora un minuto!”

No, era troppo tardi. “Vieni in casa, ti metti una giacca e usciamo, io e te, per una passeggiata. È tardi, lascia stare il cane.” Non c’era da discutere, e poi l’idea della passeggiata era attraente. Salutato il mio amico a quattro zampe, entrai in casa. La radio accesa stava trasmettendo una canzone: “…Angelita… ti saresti chiamata Angelita…” Chiesi a papà, che sarebbe rimasto in casa, che canzone fosse. “Angelita di Anzio, rispose, la storia di una bambina trovata su una spiaggia allo sbarco degli Americani”. “Che cosa faceva?” “Non lo so, non sono stato ad ascoltare le parole.” Papà non amava parlarmi delle brutture della guerra: la bambina era morta, ma io lo scoprii molto tempo più tardi, parlando con i miei cugini, più grandi di me. Allora non c’era internet, che mi ha restituito quel motivo adesso, quando l’ho cercato per rinfrescarmi la memoria. 

La melodia e le poche parole che udii mentre mi preparavo rapidamente per uscire mi diedero una strana emozione, mai provata fino ad allora con una semplice canzonetta. Mi venne voglia di piangere. L’ansia per il brutto voto che mi aspettava, chiuso con il mio quaderno nell’armadio della maestra, divenne tutt’uno con il canto triste. La passeggiata con la mamma non sarebbe stata altrettanto efficace quanto il gioco con il cane, per permettermi di annullare i cattivi pensieri. Il buio scese mentre stavamo ancora camminando; mi ero guadagnata un gelato, ma continuavo a pensare al quaderno chiuso nell’armadio, che nella mente si associava con il motivo sentito alla radio “…Angelita… ti saresti chiamata Angelita…” 

Eravamo quasi arrivate: papà era sulla soglia di casa, allarmato: aveva telefonato un suo cugino, il cui figlio era stato ferito in un incidente. Bisogna dire che io non conoscevo il ferito e a malapena avevo visto il cugino a una riunione di famiglia, perciò non fui molto addolorata. Però quella serata si era trasformata in un incubo: per molti decenni continuai a rabbrividire quando mi tornavano in mente le note della canzone. Solo ora, che ho sessant’anni più di quanti ne avessi allora, con una certa meraviglia, l’ho ascoltata tranquillamente, quando, come ho detto, l’ho ritrovata nel web.

Per la cronaca: il ferito guarì senza conseguenze gravi, e il mio compito di aritmetica, con un solo errore, aveva meritato sette: senza infamia e senza gloria. Mi misi d’impegno per capire quel benedetto calcolo dei pesi specifici, e il gioco con il cane non dovette più diventare un rifugio dove dimenticare un’angoscia da bambina.